Agaro, il paese walser finito in fondo al lago

Agaro, ad oltre 1500 metri di quota, fu fino al 1938 il più piccolo e il più alto comune della provincia di Novara, collocato in una valle pensile, racchiuso tra i ripidi versanti della dorsale che scende dalla Punta d’Arbola e che separa la Valle Antigorio e la Val Formazza dalla vallata solcata dal torrente Devero.

La Punta d’Arbola con i suoi 3235 è una delle vette più alte dell’Ossola. Una montagna delle Alpi Lepontine, tra le Alpi del Monte Leone e del San Gottardo, lungo la linea di confine tra l’Italia e la Svizzera. E’ tra le più note e frequentate, una delle mete classiche per l’alpinismo facile sul ghiacciaio della Val Formazza. In prevalenza ricoperta da estesi ghiacciai, a Nord scende il Ghiacciaio del Sabbione, uno dei più grandi delle Alpi Centrali, mentre a Sud è situato il Ghiacciaio d’Arbola verso la conca del Devero.

La vetta è uno spettacolare punto panoramico, la visuale può spaziare dal Massiccio del Rosa, al Gruppo dei Mischabel, alle Alpi Lepontine, all’Oberland Bernese. E’ conosciuta con due nomi, Ofenhorn in tedesco (Punta del Forno) oltre al toponimo italiano Arbola. Termine che sembra derivi dal latino “albus”, che indica bianco, probabilmente ad indicare il fatto che è interamente coperta di neve e da ghiacciai.

Territori da sempre di confine, di passaggio, che ha visto le popolazioni andare al di qua o al di là della montagna sin dalla notte dei tempi. Zone che ancora oggi sono ricche dei segni lasciati da chi è passato, con incisioni rupestri, dolmen, menhir e resti di costruzioni megalitiche.

E in queste terre poste in alto, a ridosso delle vette delle Alpi Lepontine, si dirama un itinerario tra i più battuti ed apprezzati, conosciuto anche come “via del formaggio” perché in queste Alpi viene prodotto il Bettelmatt, un pregiato formaggio grasso ottenuto lavorando il latte intero, che conserva il profumo delle erbe d’alta montagna. Noto sin dal medio-evo come il tesoro della Valle Antigorio.

Questi alpeggi alti posti sul limite della vegetazione d’alto fusto, a circa 1800 metri, erano vitali per la sopravvivenza delle comunità locali.

Oggi quei territori, che i Walser provenienti dalla Svizzera colonizzarono nel XIII secolo, sono in gran parte sommersi dalla diga costruita proprio nel 1938 e ciò che rimane fa capire che Agaro era il principale centro del sistema di alpeggi e stazioni invernali che dai brevi ripiani sulle alte bastionate sovrastanti il corso del Devero, saliva fino agli alti pascoli di Pojala a 2149 d’altezza.

I Walser costruirono le prime baite con il dissodamento del bosco e il prosciugamento della palude; opere che continuarono per lunghi anni e portarono allo sfruttamento estensivo di ampie zone di terreno montano. Dove prima esistevano solo boschi, pietraie e stagni essi crearono campi da coltivare, ma soprattutto ampie distese adatte al pascolo dei bovini. Crearono un insediamento di circa un centinaio di persone,

Prima di essere ricoperto dalle acque del bacino artificiale, Agaro era in una splendida piana alluvionale lunga più di 2 Km e quasi senza pendenza, in parte, palustre e torbosa.

A Margone, piccolo centro collocato nella parte inferiore della piana, c’era uno specchio d’acqua che solo nel 1890 venne prosciugato con un canale e ridotto a prateria, ma dimostra che vicino ad Agaro anticamente era presente un lago di conca in roccia viva, colmato a poco a poco dalle alluvioni.

L’accesso da Baceno era difficile e pericoloso, battuto d’inverno dalle valanghe ed era percorribile solo con strada scavata nella roccia, ancora oggi transitabile. Addirittura più difficile verso Nord, praticamente bloccato d’inverno.

Agaro, il lingua walser “Agher”, rimase così per quasi 700 anni una piccola enclave, in territorio antigoriano, con propri statuti e una certa autonomia che durò fino al 1928, anno in cui venne annesso al comune di Premia.

Si racconta che nei secoli per cinque volte il villaggio di Agaro venne abbattuto dalle valanghe e altrettante volte ricostruito. Tre volte parzialmente e due quasi del tutto, venendo poi sempre ricostruito nello stesso punto, perché ritenuto il più sicuro di tutta la piana, protetto dal bosco vecchio verso Topera, che veniva usato anche come alpeggio estivo.

Il bosco era tutelato dagli statuti di Agaro, che vietavano il taglio delle piante e la raccolta dello strame, ma per sfuggire alla furia delle valanghe gli agaresi si spostavano da fine dicembre a marzo nelle località limitrofe di Ausone, Pioda Calva e Costa Hutz.

La zona sommersa dalle acque della diga presentava due piccoli nuclei abitati, che erano gli insediamenti invernali di Agaro e Margone, adagiati nel fondovalle, rimanevano in parte protetti dalle valanghe per la presenza di alcuni boschi situati sui versanti montuosi che li sovrastavano.

Gli altri nuclei invernali, essendo collocati ad una quota inferiore rispetto al muro di sbarramento della diga, non furono sommersi dalle acque del lago artificiale.

Sono Cologno, un pugno di case su un dosso erboso quasi all’ingresso della conca dell’Alpe Devero, che fu un insediamento invernale degli agaresi, e gli altri due piccoli insediamenti di Costa e Pioda Calva.

C’è anche Ausone, su un terrazzo soleggiato a 1463 metri di quota, che fu per secoli un abitato autonomo rispetto ad Agaro, retto da propri statuti e con confini rigorosamente definiti e solo dal XIX secolo accolse gli agaresi.

Le dimore estive, dove si spostava la popolazione di Agaro col bestiame erano l’Alpe Corteverde (1821 m), l’Alpe Topera (1777 m) , l’Alpe Bionca (1992 m) e l’Alpe Pojala ( 2149 m.) che era l’alpe più grande, con una capacità di carico di oltre 50 bovini.

L’Alpe Nava (1948 m.) era l’alpeggio principale di Ausone i cui statuti, del 1588, ne definirono precisamente i confini e i diritti di pascolo.

I Signori De Rodis furono i primi a aiutare la colonizzazione delle Alpi dell’Ossola, da parte dei coloni walser, che già nel 1210 controllavano tutte le terre della valle Antigorio e perciò anche Agaro.

Un ramo della famiglia dei De Rodis, stabilitosi a Baceno, diede origine al casato dei De Baceno e fu uno dei membri di questa famiglia a concedere in affitto ereditario ai coloni walser le terre di Agaro l’8 settembre 1298 e quelle di Ausone l’11 settembre 1296.

Nel 1425, quando i De Rodis erano ormai solo l’ombra dell’antica potenza, i loro ambasciatori arrivarono a Milano per implorare presso Ludovico il Moro la riconferma dei feudi, che erano appunto Foppiano, Agaro, Ausone, Salecchio e Cologno, lo zoccolo duro delle colonie walser.

I contatti stipulati dai coloni walser di Ausone a di Agaro nel 1296 e nel 1298, stabilivano che erano liberi sul loro territorio e che ogni miglioramento e nuovo dissodamento sarebbe stato a loro beneficio, mentre i feudatari avevano il diritto di pesca nel lago d’Agaro e quello di pascolo per quattro cavalli e otto buoi all’Alpe Pojala.

L’affitto fu stabilito in 30 lire imperiali, otto libbre di pepe, sei pernici e mezzo quintale di formaggio per ogni alpe; il tutto da consegnarsi alla festa di San Martino dell’11 novembre per ogni anno. Questi diritti, minuziosamente definiti, furono utilizzati come merce di scambio in compravendite fra signorie nobiliari.

Dai de Rodis-Baceno il feudo venne ceduto ai Marini di Crodo, quindi nel 1646 al conte Giulio Cesare Monti di Valsassina con tanto di investitura feudale del re di Spagna Filippo IV, come marchese di Salecchio, conte di Agaro, signore di Avesone e di Costa, che poi rinunciò nel 1679 al suo diritto di pascolo negli alpeggi di Agaro per “… una ricognizione annua di lire grosse 25 di formaggio della migliore qualità e condizione si faccia in coteste parti, da consegnarsi in mia casa in Milano”.

Il contadino walser doveva lavorare duramente durante la stagione estiva, perché era l’unico momento in cui si potevano coltivare e raccogliere gli scarsi prodotti che la montagna offriva.

Le attività svolte in questo periodo erano l’allevamento bovino sui pascoli alti e la coltivazione dei campi, più la raccolta del foraggio, nel fondovalle.

Questi due luoghi, dove il contadino doveva operare nel periodo estivo, erano sempre molto lontani fra loro, e collocati a livelli altitudinali assai diversi e quindi ogni lavoratore era costretto a percorrere, sentieri in forte pendenza e molto scomodi, dato che non sempre le donne e i bambini, lasciati da soli a portare avanti la conduzione dell’alpeggio, potevano essere autosufficienti.

La stagione dell’alpe durava per tutti i tre mesi d’estate, infatti uomini e bestiame salivano all’alpe a fine maggio e tornavano alle sedi invernali a settembre.

Durante questo periodo i contadini non soggiornavano sempre nello stesso alpeggio, ma spesso si dovevano spostare fra due o tre zone.

In ogni zona colonizzata dai walser, gli spostamenti del bestiame avvenivano passando dagli alpeggi situati in località meno elevate ad altri collocati più in alto. L’allevatore walser, nei suoi spostamenti, aveva sempre ben presente la necessita di sfruttare l’erba dei pascoli alpini, appena questa avesse cominciato a crescere, grazie a una serie di scansioni temporali che variavano lievemente con il variare della quota, e di questo era obbligato a tenere conto.

Le stesse regole erano usate anche per gli spostamenti da un alpeggio all’altro che il bestiame faceva per scendere nuovamente alle sedi invernali, dove si passava dalle località situate più in alto a quelle meno elevate.

La discesa dei contadini walser, per stabilirsi nelle sedi invernali, era accompagnata da una festa, che si teneva in una delle giornate comprese fra l’8 settembre, in onore della Madonna, e il 29 settembre, in onore di San Michele.

Per quasi sette secoli gli abitanti di questo microscopico comune, lottarono strenuamente per la loro autonomia e sopravvivenza, finché nel 1938, si dovettero arrendere ai “superiori interessi della nazione”: in quella data l’abitato venne sommerso sotto 20 milioni di metri cubi del bacino idroelettrico, voluto dall’Enel, deciso senza neppure consultarli. Ricevuto un indennizzo minimo, alcuni si dispersero a malavoglia per la valle Antigorio. Altri rimasero strenuamente sino all’ultimo, pare ci fossero ancora i panni stesi fuori dalle case, quando cominciarono a invasare la diga.

Gli abitanti si dispersero così, portando con loro il ricordo della loro storia e delle antiche tradizioni locali.

Il lago d’Agaro, è oggi meta di passeggiate e trekking in quota, in condizioni normali non si riesce a individuare il punto dove sorgeva il paese, ma quando la diga viene svuotata si vedono i muri delle case integri e addirittura la vecchia cappelletta sembra sia rimasta quasi intatta.

Pubblicato su: www.labissa.com

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